I moti di Battipaglia, tra storia e memoria

In occasione del cinquantenario dei moti di Battipaglia avveuti il 9 Aprile 1969,  l’Associazione storico-culturale “Battipaglia 9 Aprile 1969” in collaborazione con la CGIL e con il patrocinio del Comune, ha organizzato nei giorni scorsi l’iniziativa “Battipaglia tra storia e memoria” con convegni, mostre, dibattiti presso l’ ex scuola “De Amicis”. Alla manifestazione hanno partecipato membri dell’Associazione, il sindaco di Battipaglia Cecilia Francese, rappresentanti della CGIL, storici e testimoni di quegli eventi. Sul tema interviene lo storico Alfonso Conte.

Secondo una linea interpretativa diffusa, che trova numerosi riscontri in autorevoli saggi storici, le rivolte meridionali di fine anni sessanta ed inizi settanta furono frutto del ribellismo anarcoide caratteristico delle fasce popolari del Mezzogiorno, di estemporanee esplosioni di protesta violenta prive di coscienza ideologica e strategia politica.Secondo molti, Avola nel 68, Fondi e Battipaglia nel 69, Reggio nel 70, Eboli nel 74, per citare le principali, furono il sessantotto dei meridionali. E, senza dirlo, sembra essere sottinteso il giudizio secondo cui, mentre al Nord si viveva la stagione degli studenti ed operai uniti nella lotta e si svolgevano approfondite riflessioni sul “libretto rosso” e sulla lotta di classe, qui al Sud si dava vita alle solite proteste degli straccioni, preoccupati solo di strappare ai padroni due lire in più sulla paga. Secondo molti quindi, le rivolte di quegli anni furono il sessantotto dei meridionali. Sì, ma un sessantotto “di serie b”, di livello inferiore. Su tutt’altro versante si muove invece Manlio Rossi Doria il quale, pochi giorni dopo i fatti dell’aprile 1969 a Battipaglia, in un articolo sull’“Avanti”, analizza lucidamente gli avvenimenti invitando a non collegarli con l’immagine stereotipata di “un Mezzogiorno immobile e abbandonato, delle plebi miserabili senza avvenire”, poiché, viceversa, essi rappresentano “l’espressione di un Mezzogiorno in movimento, di lavoratori coscienti dei propri diritti, impegnati nella dura vicenda di una trasformazione necessaria e della conquista, non ancora raggiunta, di una stabile posizione sociale e della stessa dignità umana e civile”. Altro che proteste di “serie b”, sembra dirci il grande meridionalista, qui sono impegnati lavoratori che sono “ben più avanti” di quanto non lo siano “i quadri politici, burocratici e organizzativi che operano quaggiù, tutti presi, come questi sono, nel vecchio gioco trasformistico e clientelare”. E le contestazioni sono contro “il modo prevalente di condurre la cosa pubblica”, ma anche contro il “modo d’essere delle stesse organizzazioni di sinistra e sindacali”. E la causa scatenante delle proteste non sono i salari insufficienti, ma “l’irresponsabile sviluppo moderno dell’Italia del miracolo economico”. Se si ritiene che l’analisi di Rossi Doria risulti più adeguata, ne consegue che oggi, a cinquant’anni di distanza, il ricordo degli avvenimenti non può ridursi ad una generica celebrazione della classe lavoratrice, tantomeno ad un’esaltazione acritica delle sue rappresentanze politiche e sindacali. Sarebbe più opportuno, invece, provare a fare i conti con il passato, tentare un’analisi più approfondita di quegli avvenimenti, consapevoli che in Italia la riflessione storica è quasi sempre svuotata di senso, superata, annichilita, dalle strumentalizzazioni faziose e dagli interessi partigiani. Certo, quello che avvenne a Battipaglia nel 1969 pone domande anche su altre questioni, pure importanti, come le direttive del governo ed i metodi adottati dalle forze dell’ordine per garantire la sicurezza pubblica in occasione di proteste di lavoratori, oppure l’ipotetica infiltrazione finalizzata a provocare interventi repressivi in quella che sarebbe stata una delle prime prove della “strategia della tensione”. Tuttavia, il tema più importante pare quello sollevato da Rossi Doria: le rivolte meridionali come segnale dei limiti e delle criticità dell’intervento straordinario al Sud e delle politiche pubbliche attuate negli anni del “boom economico”, dovute soprattutto al ruolo insufficiente ed inadeguato delle classi dirigenti, dei partiti e dei sindacati. Un’analisi secondo cui la crisi di legittimità dei corpi intermedi, il declino di forme fino ad allora invalse di partecipazione democratica ed il drammatico distacco tra governanti e governati, che ancora oggi siamo costretti a costatare, riguardano processi avviati in quegli anni e da quell’epoca destinati a restare a lungo irrisolti, fino ai nostri giorni. Forse proprio perché non siamo stati in grado, o abbiamo preferito non farlo, riconoscere quei processi e quei limiti e da lì provare a ripartire. Grazie soprattutto all’attività della Cassa per il Mezzogiorno, negli anni sessanta diminuì il divario tra livelli di reddito dei cittadini del Nord e del Sud d’Italia. Fu un fatto epocale, avvenuto per la prima volta dopo l’Unità e non più ripetuto nei decenni successivi. Eppure, a Battipaglia nel 1969, i lavoratori protestarono, perché lo sviluppo, che indiscutibilmente c’era stato, evidentemente non aveva riguardato tutti. A Battipaglia nel 1969 si protestò perché la scommessa, avviata nel Salernitano già a partire dagli anni trenta, di puntare sulle concessioni speciali governative per la coltivazione del tabacco si manifestava ormai come una scommessa persa. Si protestò perché molti dei posti di lavoro nelle attività produttive della Piana del Sele erano a carattere stagionale e la ricchezza che si produceva in quell’area non risultava adeguatamente redistribuita ai lavoratori dipendenti. Fu un grido di protesta contro chi si era assunto la responsabilità di dirigere i processi decisionali ed aveva fallito, contro chi aveva destinato fiumi di denaro collegati ai finanziamenti pubblici avendo come obiettivo principale di aumentare la rendita elettorale e non promuovere solide e durature opportunità di sviluppo, contro chi aveva partecipato ai tavoli di concertazione avallando scelte clientelari. Davanti a quella protesta, alle vittime di quella sacrosanta rivolta, le forze politiche e sindacali dell’epoca reagirono chiedendo scusa per la repressione poliziesca e promettendo un “risarcimento”, sì, fu definito così, attraverso nuovi investimenti industriali. Si pensò inizialmente all’aeroporto, poi ad un insediamento della Fiat, ma nel 1974, quando fu chiaro che quegli investimenti pubblici erano stati invece dirottati altrove, i lavoratori tornarono a protestare e ad Eboli spezzarono l’Italia in due, bloccando le principali vie di comunicazioni. Dopo quattro giorni di lotta i blocchi furono rimossi, dietro la promessa di imminenti investimenti pubblici, questa volta nel settore chimico. Ma, ancora una volta, le promesse non furono mantenute.

 

Alfonso Conte

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *