Governo, un “mostro” a due teste e il vuoto a sinistra

Nei giorni delle trattative per la formazione del governo, Fausto Bertinotti, al quale si può imputare più d’un errore politico ma che certo non difetta di profondità d’analisi, si mostrava scettico sulla fattibilità di un’alleanza tra il Movimento 5 Stelle e la Lega. Troppo differenti le basi sociali delle due forze politiche, diceva: poveri, precari, meridionali per Di Maio; ceto medio, lavoratori autonomi, settentrionali per Salvini. Bertinotti ha sbagliato il pronostico, ma non il ragionamento. Il governo Conte è sorto perché nel mondo è mutato lo spirito del tempo: i concetti di destra e sinistra non godono di ottima salute. L’Italia ha così sperimentato un’alleanza di governo tra forze accomunate essenzialmente dalla critica populista alle élites, interpreti delle politiche neoliberiste che hanno generato il disagio materiale ed esistenziale che è il principale carburante di chi sostiene di opporsi al sistema. Al netto delle contingenze storiche, la maggioranza gialloverde è uno strano mostro bicefalo le cui teste rivolgono lo sguardo in direzioni diverse, e i cui elettorati hanno in comune abbondanti dosi di risentimento verso chi ha gestito gli anni della grande crisi e poco altro. La legge di bilancio è l’indicatore più manifesto delle contraddizioni insite in una siffatta coalizione. Entrambe le forze vogliono onorare le promesse elettorali scolpite nel contratto di governo. Misure che rivelano la natura delle rispettive basi sociali: il Movimento 5 Stelle volge a Mezzogiorno con un ambizioso provvedimento di contrasto alla povertà, mentre la Lega guarda al tipico elettorato di centrodestra del Nord che vuol pagare meno tasse e andare in pensione con un po’ d’anticipo. Per contemperare due prospettive difficilmente conciliabili, se non altro perché comportano sia una maggiore spesa pubblica che un minor gettito fiscale, l’unico strumento di breve periodo è il deficit. Proprio sul livello del disavanzo pubblico, che il governo ha fissato al 2,4% per il 2019, i gialli e i verdi mescolano i colori e occultano le contraddizioni. Le due forze segnano un gol a porta vuota individuando nel Pd il responsabile dell’austerità che ha impoverito il paese, e tracciano una strada almeno in parte differente: si stabilisce il principio secondo il quale un’altra politica economica è possibile, aprendo uno spazio di manovra che potrebbe giovare a tutti gli altri partiti. L’opposizione non vive un periodo sereno. La sua argomentazione prevalente, ovvero il rischio per i conti pubblici a causa dell’aumento del disavanzo,fa sempre meno presa in un elettorato fiaccato da anni di rigore fiscale. E se la scommessa del governo – aumentare il deficit per generare una crescita del Pil tale da diminuire il debito pubblico – si rivelerà vincente, i precetti keynesiani godranno dell’ennesima conferma empirica. La latitanza dell’opposizione non si esaurisce nella sua miope lettura della politica macroeconomica: sembra grave l’incapacità di elaborare un piano alternativo, di marca socialdemocratica, a una manovra accettabile per la sfida sul deficit, discutibile per alcune delle misure che la compongono, e fortemente criticabile per le sue carenze. Il reddito di cittadinanza, che da una prospettiva di sinistra è la novità più interessante della legge di bilancio, non può essere derubricato a mera misura assistenziale. Tuttavia, esso rimanda a una visione individualista e liberista della società: si eleva il tenore di vita di molte persone fino alla soglia di povertà – ma non di più – senza incidere sulla scarsa occupazione e sulla massiccia emigrazione, ataviche piaghe del Meridione, e senza rimettere al centro del discorso pubblico il ruolo dello stato sociale. Il provvedimento riflette l’incerta cultura politica del Movimento 5 Stelle, mentre l’alleato leghista ha ben chiaro che il suo approdo non potrà che consistere in un’alleanza tra popolari e populisti, già prefigurata in vista delle elezioni europee. E rinvia, altresì, allo smarrimento di una sinistra incapace di cogliere i punti cardine di un provvedimento controverso ma necessario. Alla sinistra non mancherebbe l’opportunità di rinascere dalle proprie ceneri dopo oltre vent’anni di navigazione a vista nei mari del blairismo. Alcune esperienze europee – quelle di Corbyn, Mélenchon, Iglesias, Wagenknecht – tracciano la strada mescolando populismo progressista, approccio critico all’Unione Europea e patriottismo costituzionale: parole d’ordine che la sinistra italiana rifiuta. Soprattutto, andrebbe definitivamente superata qualsiasi subalternità verso la cultura del TINA – there is no alternative – che piega la democrazia alle logiche del mercato e verso la quale anche la sinistra radicale è spesso apparsa assoggettata. La democrazia ha una sua forza intrinseca. Contrastare ciò che la minaccia, almeno nel dibattito pubblico, è una condizione ineludibile per invertire la rotta.

Marco Giannatiempo, dottore di ricerca Scienze Politiche Università di Salerno

 

Marco Giannatiempo

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