Contro il nuovo governo un “delirio di appartenenza”

Il nuovo governo 5 stelle/Lega nasce in un clima di odio e di livore. Se è normale che chi ha perso osteggi i vincitori, non è normale che un governo nato dalle indicazioni degli elettori, con un accordo faticosamente conquistato dopo il gran rifiuto del PD a qualsiasi alleanza, venga oggi demonizzato come il male assoluto, gridando al fascismo e alla barbarie. La canea che si è scatenata in questi giorni e che vede riuniti i responsabili delle politiche degli ultimi anni, Pd e Forza Italia ( e molti media a supporto), si rifiuta di considerare le proprie responsabilità ed esprime una concezione autoritaria del potere, una sorta di “delirio di appartenenza” che considera i nuovi governanti come degli usurpatori, degli intrusi in casa propria su cui è giusto esercitare una “legittima difesa”.  Questo governo può non non piacere, può suscitare molte preoccupazioni e scatenare la più ferrea delle opposizioni (soprattutto se vengono messe in gioco le libertà civili) ma nessuno può ignorare che esso sia un governo insediatosi democraticamente.  Come non si può ignorare che il richiamo fortissimo alla giustizia sociale e al  riequilibrio delle risorse tra élite e popolo,  nasce da un reale “vulnus” alle condizioni sociali di gran parte degli italiani che hanno perso negli anni potere di acquisto, si sono progressivamente impoveriti e hanno visto il proliferare dei privilegi di una avida classe politica. L’incapacità di guardare ai propri errori non è però il frutto di una patologica cecità; è invece la volontà pervicace di dare continuità a queste politiche, nella convinzione che esse siano le sole giuste  mentre vengono considerati con disprezzo  e commiserazione tutti i tentativi di cambiare lo status quo. Il delirio di appartenenza considera giuste le politiche di austerità imposte dall’Europa; ritiene che il liberismo, il potere dei mercati, il dominio della finanza siano la regola. E l’eccezione è il Movimento 5  Stelle, per la maggior parte un gruppo di cittadini che si è organizzato dal basso ed è riuscito in pochi anni a raccogliere il malcontento che cresceva nel paese. Per Eugenio Scalfari il governo “Salvimaio” rappresenta “I plebei al potere” e un pensiero storicamente di sinistra si esprime con il disprezzo tipico del peggiore classismo. Eppure, già nelle elezioni del 2013, dopo il governo Monti e la famigerata riforma Fornero che aveva smantellato diritti acquisiti,  era evidente che qualcosa stava accadendo nel paese. La risicata maggioranza di Bersani,  il fallimentare approccio con i 5 stelle, avrebbero dovuto mettere in guardia fin da allora. Invece tutti i segnali sono stati ignorati, si è accolto senza fiatare il sostegno delle destre agli ultimi due governi Letta e Renzi, il patto del Nazareno ha resuscitato dalle ceneri  Berlusconi, l’odiato nemico pluricondannato di un ventennio ma nessuno ha gridato al fascismo e alla barbarie e oggi PD e Forza Italia si ritrovano insieme ad azzannare il governo  “dei plebei”. Si rinnova così nella opposizione il patto già esistente sull’Europa, sui mercati, sul liberismo etc etc. Le riforme varate nei due anni da Renzi, hanno dato il risultato parziale e deludente del  jobs act , un aumento dei posti di lavoro a tempo determinato  e una maggiore flessibilità anche di licenziare. Le altre riforme (Madia, Italicum, Buona Scuola) approvate a colpi di fiducia e, tranne timide voci nessuno condanna il carattere pesantemente antidemocratico di queste azioni, fino a quanto non si infrangono oltre che negli organismi di controllo,  nell’odiato popolo come nel Referendum del dicembre 2016.  Una “politica del fare” che svuota i poteri del Parlamento ed è pure  inefficace: lavoro, spending review, trasparenza, debito pubblico di cui tanti oggi agitano lo spauracchio, non hanno in alcun modo raggiunto i risultati annunciati.  Negli anni di Renzi sono state  finanziate spese supplementari e investimenti aumentando il deficit,  solo per la presidenza del Consiglio nel primo anno del suo governo lo Stato ha speso 3 miliardi e 683 milioni, 139,5 più del governo Letta, con un aumento delle risorse destinate all’acquisto di beni e servizi, tra cui il costoso aereo di Stato. Intanto proliferano le scelte “discrezionali” che piazzano  in tutti i gangli dello Stato amici del Giglio magico, la Boschi viene travolta dallo scandalo della Banca Etruria che lascia a terra i piccoli risparmiatori, mentre si abbatte lo scandalo Consip sul padre di Renzi e Lotti.  Vengono nominati amici all’Enel, a Finmeccanica, alle Ferrovie, all’Eni,  alla Rai; il  capo dei vigili urbani di Firenze diventa Consigliere di Stato aggirando i limiti di età. Le società partecipate censite dalla Corte dei Conti sono  7.684, di cui 1300 hanno solo il Cda e non servono a niente. Lo stesso PD si sfalda,  aumenta l’insofferenza e dall’entusiasmo iniziale sulla annunciata “rottamazione” e che aveva portato il PD al 40 % alle europee, si arriva alla scissione interna e al crollo di molti punti. Ancora più sciagurata è la politica sui territori dove il PD perde città come Roma e Torino e perde in regioni anche storicamente di sinistra, come in Umbria, in Emilia Romagna, nella stessa Toscana. In Campania l’appoggio incondizionato a De Luca per vincere il referendum, il mega finanziamento per le ecoballe, risulta un abbraccio mortale. Da tempo quindi  il centro sinistra ha perso la sintonia con  questa voglia di cambiamento che viene derubricato come protesta populista e di destra da contrastare in tutti i modi; non viene insomma  compresa nella sua portata acutamente sociale, in cui nuove classi “disappartenenti” si affacciano sul terreno dello Stato. Uno spirito assolutamente conservatore incapace di rinnovarsi, la supponenza di appartenere ad una classe di eletti che stanno sempre dalla parte giusta. Non resta allora che guardare con orrore a queste macerie fumanti della sinistra e sperare che gli ostacoli che porranno a questo governo non ne impediscano qualsiasi possibilità di azione.

Luciana Libero

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